di Riccardo Palladino

Se il cinema di Liliana Cavani in generale è alla «ricerca del mito e della mitologia oltre la leggenda e ogni sua copertura», I cannibali è forse il film che più di tutti appartiene a questa categoria di “mito in progress”. Il film, com’è noto, è una trasposizione dell’Antigone di Sofocle, che la regista di Carpi, in collaborazione con Italo Moscati e Fabrizio Onofri, rivisita, o meglio «reinventa», secondo la definizione che ne diede Moravia, seguendo un personale percorso di ristrutturazione e di adattamento che trascende la semplicistica operazione di illustrazione. Non è da escludere che la Cavani, volontariamente o no, si sia ispirata all’Antigone di Anouilh e a quella di Brecht, entrambe rivisitazioni della tragedia greca. Senza entrare nell’aspetto comparativo tra i tre testi ed il film, è utile ricordare come l’Antigone della Cavani sia in parte vicina per intenti a quella brechtiana. La convergenza più evidente tra I cannibali ed il testo del drammaturgo tedesco, sta nell’inasprire il contrasto tra singolo e Stato, tra legge morale e legge dello Stato, tra spazio privato e spazio pubblico e nella mancanza di un qualsiasi tipo di dialettica tra i due emisferi. Inoltre la caratterizzazione dei personaggi, nella Cavani, viene estremizzata a tal punto che le loro posizioni fisse sembrano risentire «della divisione tra buoni e cattivi, [...] [facendo sì che] i protagonisti diventino dei “caratteri”, delle eccezioni che lo spettatore recepisce come estraneita>>. Non che Sofocle tratteggi una Antigone dubitativa, socratica e volta al compromesso, anzi lei è quasi una “fondamentalista” della pietas, ma il testo greco lascia una sensazione e di vittoria e di perdita da parte di entrambe le posizioni. In Sofocle, Creonte e Antigone «hanno entrambi torto; Antigone perché di fatto trasgredisce la legge, Creonte perché di fatto offende la pietà». Questa sensazione di perdita e di vittoria in Brecht e nella Cavani non è presente: Antigone è la vittima mentre il Primo Ministro e lo Stato sono i carnefici, i tiranni. La scena finale de I cannibali piuttosto che aprire un barlume di speranza nella dialettica leggi morali/leggi di Stato sembra configurarsi come una ipotesi sognata, senza sconvolgere i due emisferi: l’uno resta tiranno, l’altro vittima. In ogni caso, al di là della inane diatriba sulla aderenza e sulla “disobbedienza” al testo, l’unicità de I cannibali sta nel ritradurre un mito attraverso una situazione mitica: partendo dal mito greco di Antigone si rifonda un nuovo mito, attraverso un processo di “mito in progress”. La Cavani decide di non aderire al tempo cronologico e ad una collocazione storica ben precisa, e benché le vicende narrate nel film, la rivolta e la conseguente azione reazionaria delle Istituzioni, siano presto avvicinabili con i fatti del ‘68, la Cavani si è tenuta ben lontana dalla collocazione spazio-temporale veritiera e cronachistica. È caratteristica del mito l’essere senza tempo. Il mito, essendo un paradigma, una storia esemplare, che non vale per sé, non è “presentazionale”, ma “rappresenta” molteplici situazioni con una storia emblematica. Non la cronaca di fatti cronologicamente individuabili e tanto meno la verità. La città-stato futuribile non è Milano, la rivolta non è quella del Maggio francese, la dittatura non è quella del Portogallo. La situazione emblematica che il film rappresenta è quella di una dittatura feroce in una città occidentale che fa i conti con una rivolta. Il personaggio di Antigone è l’emblema universale di chi sfida i regimi totalitari in nome di una pietas e di una legge morale che abbraccia tutti gli uomini oppressi sentiti come fratelli. Il mito, distante dai tratti dell’hic et nunc rappresenta situazioni valide in ogni tempo, in ogni luogo. Il cinema della Cavani «si svolge fuori della storia senza privarsi di una storia, si spinge fuori del tempo senza rinunciare a un suo tempo, si isola nel divenire storico senza però abdicare a un suo divenire e a un suo evolversi».

I cannibali  - 1969 - foto di Antonio CasoliniLa storia

Un uomo, Tiresia, “sorge” dalle acque del mare, e svegliato dagli scherzi di bambini si ritroverà ad assistere da “spettatore” alla fucilazione gratuita di questi da parte di ignoti cacciatori. In una città-stato occidentale e futuribile, assediata dai militari, c’è stata una rivolta, repressa dalle Istituzioni. Le autorità hanno imposto che i corpi dei dissidenti uccisi vengano lasciati senza sepoltura lungo le strade, pena la morte, come monito alla cittadinanza, al fine di educare e dissuadere dal commettere ulteriori tentativi di insurrezione. La giovane borghese Antigone decide, sfidando le leggi dello Stato, di dare degna sepoltura al cadavere del fratello contestatore. Sconsigliata dalla sorella Ismene, dal suo fidanzato Emone, figlio del Primo Ministro, e dalla famiglia stessa, Antigone sarà aiutata solamente da Tiresia, il giovane venuto dal mare e che parla una lingua incomprensibile. I due seppelliranno il fratello di Antigone e a mano a mano tutti i corpi dei giovani morti. La loro attività viene presto denunciata dalla popolazione alle autorità militari che inseguiranno i due per la città e infine li cattureranno. Antigone verrà interrogata dalla polizia e rilasciata solo dopo estenuanti torture, al fine di scovare i sicuri suoi complici eversivi. Tiresia, invece, verrà catturato dalla televisione e verrà “imprigionato” in uno studio televisivo per dare spettacolo, come in un circo, della sua diversità. Successivamente Tiresia verrà rinchiuso in un istituto di igiene mentale. I due, rilasciati, verranno uccisi in piazza davanti ad una folla accorsa e davanti agli occhi compiaciuti degli esponenti dello Stato. Alcuni dei ragazzi dell’istituto neuro-psichiatrico, dove era stato Tiresia, messi in libertà, scenderanno nelle strade raccogliendo i cadaveri per dare loro degna sepoltura.

Il linguaggio mitico

«È inutile proprio non riesco a capirti»
Emone, I cannibali

Ne I cannibali vi è un interessante lavoro sulle modalità di linguaggio e sul valore della comunicazione. Pur partecipando ad un clima culturale di rinnovamento, che nel campo linguistico condurrà ad interessanti risultati in seno alla semiotica, la Cavani intraprende una strada poco battuta, non d’avanguardia, ma sicuramente originale; dal mito greco rifonda un nuovo mito attraverso un linguaggio mitico.
«Basandomi su Antigone ne I cannibali, ho voluto servirmi del linguaggio del mito e dei simboli universali per non utilizzare il discorso contestatario che era già un prodotto di consumo nel 1969-70.» (6)
La contestazione del ’68 di far implodere i basamenti della comunicazione tradizionale con le sue parole d’ordine e con le sue chiavi precostituite di accesso al significato, determinato in modo inequivocabile, purtroppo non ha prodotto che dei cliché linguistici, altrettanto convenzionali e “di consumo” quanto la comunicazione contestata. Pasolini nelle sue lucide analisi sulla società e sul ’68 accusava la contestazione di conformismo e di convenzionalità e chiariva che ogni sistema ha il potere di assimilare e di integrare al suo interno ogni possibile diversità, e che la contestazione, con il suo linguaggio fatto di slogan e di cliché, desiderava nel profondo uniformarsi ed approdare ad una codificazione convenzionale riconosciuta e riconoscibile, integrata al sistema stesso. A causa delle potenzialità del sistema, predisposto ad assimilare ogni diversità, e a causa dell’attrazione che la diversità stessa dimostrava nei confronti del sistema, si era giunti ad una codificazione linguistica maggiore, e quindi peggiore, di quella contestata. Questo fenomeno Pasolini lo riconduceva ad un «desiderio di essere mangiati», ovvero ad una volontà di opporsi e di ricusare l’elemento da cui, in realtà, si vuole esser schiacciati. Nelle parole del padre di Emone ritroviamo questo concetto: «Voi avete bisogno di noi perché su di noi riversate la vostra carica rivoluzionaria, e noi abbiamo bisogno di voi, dei vostri capricci e dei vostri esibizionismi. Un potere senza i suoi enfants terribles è un potere incivile, e destinato a perire».
Lontana dal linguaggio “contestatario” e ormai “di consumo”, Liliana Cavani decide di abbandonare il linguaggio verbale, che di per sé esprime un compromesso, per cimentarsi in un linguaggio non codificato, puro e semplice, mitico. Scrive Tiso che «il silenzio di Tiresia-Clementi è un segno del suo rifiuto di dialogare col Potere per non esserne assorbito». Al linguaggio verbale inutile e superfluo, mediato dalle strutture del sistema e quindi già “compromesso”, si contrappone un attraversamento linguistico che non accetta intercessioni e che si esprime tramite segni non verbali, la mimica ed il linguaggio dei gesti. Si stabilisce così un “sentire”, puro e vergine, che determina tra le persone quel trait d’union che si richiede alla comunicazione. D’altronde sopra il silenzio dei morti nelle strade e l’indifferenza muta dei vivi non può trovar spazio parola che non sia ipocrita, convenzionale o codificata. Quindi in un «momento storico in cui il linguaggio verbale è tutto convenzionale e sterilizzato (tecnicizzato), il linguaggio del comportamento (fisico e mimico) assume una decisiva importanza». Nel suo intento di “reinventare” il mito, la Cavani utilizza un linguaggio mitologico, vergine, esente dagli orpelli e dai lustrini della convenzionalità. Se nel mito la storia raccontata viene spogliata di fatti cronachistici e di descrizioni annalistiche, attraverso immagini di spazi e di tempi a sé stanti, quasi fossero ricordi di una “memoria involontaria”, il linguaggio mitologico, uscendo dalla quotidianità e dall’uso funzionale-strumentale, si caratterizza analogamente per crudezza e nudità originarie. «Il linguaggio del mito diventa mito del linguaggio. E in questo realizzarsi, la sua opera così come toglie al mito il romanzesco e il leggendario, l’agiografico e il favolistico, riduce anche la “storia”, la trama, il racconto, il romanzesco e il leggendario alla struttura stessa di ciascun film, riportando il cinema alla sua originaria capacità documentaristica e realistica».
Tiresia, l’uomo venuto dal mare, è l’emblema dell’uomo nuovo, che si esprime attraverso un linguaggio universale: egli non conosce le codificazioni, le parole d’ordine o i cliché alla base della comunicazione verbale. L’incontro con Antigone sarà sin da subito caratterizzato da gesti e simboli non conosciuti, ma “riconosciuti” istantaneamente, condivisi e compresi da entrambi: i due non parlano la stessa lingua ma si capiscono senza parlare, al contrario di Emone. Il loro è un incontro puro, in cui ognuno si esprime con un linguaggio diverso dal verbale a cui l’altro non è stato “iniziato”. I due si fanno spazio tra i codici per iniziare a sentirsi, a vedersi, ad agire. È come se ogni volta si cominciasse a parlare una nuova lingua, perché i loro modi di comunicare variano di continuo e non si sedimentano mai come traguardi raggiunti in seno ad un nuovo sistema. La risposta al linguaggio convenzionale e a quello contestatario “di consumo”, che la Cavani propone, sta nel linguaggio della vita, corporale, empatico, un linguaggio nomade, in continua migrazione. Piuttosto che una forma, o un codice strutturato, il linguaggio di Antigone e di Tiresia è come un vettore energetico, un processo, una captazione di forze, sempre mutevole. È il linguaggio della realtà, l’Ur-codice di cui parlava Pasolini, la comunicazione arcaica dei corpi e dei gesti che è insita nella natura dell’uomo e che si può tradurre, ma non bloccare, con una macchina da presa nella «lingua scritta della realtà» (11): è l’identificazione del cinema con la vita, che ne I cannibali raggiunge un’elevata simbiosi. La scrittura con le immagini capta le forze liberate dai personaggi, dagli spazi e dalla messa in scena per liberare a sua volte altre forze; il film vive concretamente di un linguaggio reale, arcaico (perché primordiale), valido tra tutti gli uomini disposti empaticamente a recepirlo. Siamo di fronte in questo caso ad un “campo semantico emozionale” scevro da interpretazioni logiche univoche. Non veicolato dalle parole, il senso assume aspetti molteplici, validi per riqualificazioni e per reinterpretazioni. Accade che l’energetica del senso, anziché bloccarsi nel caso in cui si incontri un significante unitario ed univoco, che non ammette variazioni polisemiche, resti sempre come “ciò che sfugge”. In questo modo esprimere il senso con significanti che a loro volta sono portatori di nuovi sensi e che necessitano di nuovi significanti per essere espressi, comporta un processo di proliferazione illimitata di senso e di significanti, un’esplosione comunicativa ma anche un processo di regressione, come lo definisce Deleuze.

Antigone, Emone e Tiresia

La regressione, uno dei temi cardine del film, viene rappresentata dalla metamorfosi di Emone, simbolo di un annichilimento volontario. Estraneo ad ogni tipo di dialettica, Emone vuole azzerare qualsiasi tipo di tratto civile: non vuole prender parte né agli orrori dello Stato né alla contestazione, abbandonandosi ad uno stato animale completamente estraneo a qualsiasi posizione. Emone e Tiresia si pongono come i due punti estremi, al di fuori della dialettica tra Stato e contestazione. Tiresia rivendica l’imperativo categorico di dare sepoltura ai morti, atto morale e tappa fondamentale dell’evoluzione dell’uomo, e attraverso valori atavici e ancestrali rappresenta l’uomo nuovo che si fa strada tra le sovrastrutture della società. Emone anch’egli estraneo ad ogni tipo di dialettica, è invece il simbolo dell’abulia come scelta volontaria di fronte all’indifferenza che gli viene richiesta. Il personaggio di Emone, nel suo atteggiamento di rinuncia e di disperazione solitaria, assomiglia molto a Julien protagonista di Porcile di Pasolini.
Entrambi sanno bene che di fatto ogni sistema ha il potere di assorbire al suo interno ogni tipo di diversità, per cui ogni contestazione non fa altro che portare ad una riaffermazione dello status quo. Il sistema non chiede di avere tutti dalla sua parte, ma solo alcuni, lasciando così che fiorisca una opposizione contro cui combattere e riaffermare se stesso. Il padre di Emone sa bene che ogni potere ha bisogno di un nemico – a volte immaginario, là dove non ve ne fosse uno reale – per non perire. La logica sottintende che si è “con” o si è “contro”, tertium non datur. Per cui la volontà di annichilimento è una sconfitta per la società che deve correre ai ripari, escludendo, estirpando e recludendo.
Antigone, invece, nel suo rendersi “estranea”, sia al Potere sia alla contestazione, affronta un percorso diverso da quello di Emone, ma comunque di regressione. Tiresia inizierà Antigone ad un nuovo linguaggio ma anche ad un differente modo di resistenza. Antigone si farà spazio, seguendo l’esempio di Tiresia, tra le sovrastrutture della società, approdando ad uno stato “naturale” e ancestrale di esistenza; cercherà in se stessa «la propria natura animale, a lungo repressa da una educazione assurda e infausta». Pian piano si sbarazzerà delle leggi dello Stato, dell’educazione repressiva, della codificazione linguistica, e quindi della parola, della famiglia, ecc. Non approda però alla contestazione perché si tiene distante dalla ribellione politica codificata e collettiva. La sua ribellione, carica di una violenza arcaica, benché sia una “disobbedienza civile”, è un gesto etico e politico, che passa però attraverso un atto personale: spetta al singolo farsi carico del fardello dei morti. Antigone combatte come singola per la propria coscienza. È a livello emotivo che si scatena la “violenza della disobbedienza civile”, frutto più dell’istinto che del pensiero: Antigone sente e non tollera. Il suo ragionamento avviene attraverso i sensi ed un sentire empatico: è a pelle che sente e reagisce.
Nell’interrogatorio ad Antigone i rappresentanti delle istituzioni, non comprendendo – o non credendo – a questo atteggiamento solitario, cercano di scoprire i nomi dei fantomatici complici della rivolta, di cui Antigone sarebbe solo un emissario. Verrà quindi accomunata ai contestatori anche se in realtà non lo è. Il sistema teme più il singolo che agisce in base ad una morale personale, piuttosto che una contestazione codificata. Concludendo il discorso sul «desiderio di essere mangiati», Pasolini afferma che l’unica reazione possibile sembra essere una opposizione personale. «Io penso che la disperazione è oggi l’unica reazione possibile all’ingiustizia e alla volgarità del mondo, ma solo se individuale e non codificata. La codificazione della disperazione in forme di contestazione puramente negativa è una delle grandi minacce dell’immediato futuro(come l’atomica o la cultura di massa). Essa non può non far nascere degli estremismi, che, arrivando alla coincidenza diabolica di irrazionalismo e pragmatismo, finiscono col divenire nuove forme di fascismo: magari fascismo di sinistra: cieco di fronte questa semplice realtà».
Tiresia è invece il personaggio messianico che sorge dalle acque per annunciare l’“uomo nuovo”.
«Il risveglio di Tiresia sulla spiaggia, al contrario dei bambini, è il risveglio mitico della coscienza d’un uomo nuovo quanto antico, al di fuori delle strutture convenzionali». Tiresia è il profeta che non predica verbalmente, ma che attraverso il suo agire indicherà una terza via estranea al Potere e alla contestazione. Lui non partecipa alla regressione, perché egli è già ciò che è. È una figura fortemente caratterizzata, che non subisce alcun cambiamento. È bidimensionale nel suo essere portatore dei valori ancestrali, ma d’altronde lui è un’apparizione, un’epifania, un essere dai tratti quasi ultraterreni.

Lo sguardo dei cannibali, uno sguardo etico
«Chi vuol vedere, vien veduto»
Bertold Brecht, Preludio all’Antigone

«Clementi, nel film, è una idea, è l’uomo del futuro, il rivoluzionario di domani che viene da fuori. [...] Deve soltanto vedere, poiché gli abitanti della città non vedono più niente. Non deve parlare perché, nella contestazione, la parola è già l’inizio del compromesso, della sconfitta. [...] Un essere puro, vergine [...]. Clementi è l’uomo nuovo e antico nello stesso tempo, per il quale parola e azione sono tutt’uno».
L’“uomo nuovo”, abbandonato il linguaggio verbale, si fa portavoce di un nuovo modo di interazione e di conoscenza, che si erge sull’orizzonte del visibile. La Cavani nel suo cinema ha sempre riflettuto sulla stretta connessione tra la visione ed il potere, ma in particolare ne I cannibali ha tentato di enucleare alcuni particolari atteggiamenti dell’atto visivo dal “punto di vista” etico e politico. Antigone e Tiresia, affrontando l’insostenibilità dello sguardo provocata dagli orrori dello Stato, sono accomunati da uno “sguardo partecipante” che li unisce ai cadaveri abbandonati e che li spinge ad agire, per dare loro degna sepoltura. È uno “sguardo empatico” che muove i due personaggi in un atto unico e contestuale che collega diret-tamente il vedere al sentire, al fare. Solo uno sguardo capace di sostenere tutto il visibile può reggere la vista degli orrori perpetrati ed agire di conseguenza. Attraverso questo “sguardo partecipante” Antigone si congiunge intersoggettivamente con il fratello morto, e con tutti i “fratelli” morti, abbandonando quel distacco tra soggetto e oggetto, implicito nella visione che la famiglia e le istituzioni le impongono. Il legame che unisce Antigone al fratello morto si stabilisce attraverso un sentire che non permette di chiu-dere sovranamente gli occhi. Antigone percepisce e si percepisce come un soggetto di fronte ad altri soggetti, da cui non può essere recisa. La visione per Antigone determina l’essere ed è partecipazione all’Essere. Per Antigone l’Io non delimita se stesso, ma si espande aprendosi all’altro. La partecipazione definisce, infatti, una singolarità aperta, che perde i connotati dell’indivi-dualità chiusa su se stessa. L’Io si apre e diviene un altro o tanti altri. La porosità di cui parla Sartre ne L’essere e il nulla sta nel penetrare e nel lasciarsi penetrare empaticamente. L’uomo è aperto sul mondo, «girato verso» il mondo; il «foro nell’essere» lo rende esposto e sensibile ad accogliere il mondo. L’io «oggettivo» rende la vita dell’uomo dipendente dalla relazione con l’altro. È come se Antigone fosse ricambiata dallo sguardo dei morti, uno sguardo dall’aldilà. Lo sguardo partecipante è compromettente, perché implica un accogliere ed essere accolti, un vedere ed un essere visti, uno scambio conti-nuo di ruoli tra Spectrum e Spectator: l’uno si fa visibile dell’altro. Merleau-Ponty parlava di un «chiasma» per definire questo doppio rapporto in seno al visibile. «Non esiste visione che metta in relazione soggetto vedente e oggetto visto in quanto già-dati, ma la visione nasce nel cuore del visibile, come scissione di un vedente e di un visto, loro reciproco rimando e loro reversibilità. [...] Il vedente appartiene al visibile stesso, perché il vedente è anche visibile. [...] Il mio corpo è anche corpo tra gli altri, corpo per gli altri. [...] Noi guardiamo le cose che ci ri-guardano. E il vedente non è estraneo al visibile, ma vi appartiene pienamente, è una sorta di “concentrazione del visibile”, che a sua volta è tale solo in rapporto ad un vedente».
La separazione tra soggetti vivi vedenti e oggetti morti visti è l’artefice di un rapporto di supremazia degli uni sugli altri, che conduce inevitabilmente alla sopraffazione dell’individuo. È la violenza dello sguardo che lo Stato impone ai suoi cittadini. Parafrasando le parole di Merleau-Ponty si può affermare che occorre non essere estranei al mondo guardato, ma farvi parte, per non ritenere estranei i cadaveri abbandonati nelle strade, ma “sentirli” come fratelli.
Antigone è l’emblema di una forte coscienza solidale, che accomuna l’etica di origine cattolica e la morale laica umanista, e che può nascere solo se si partecipa della sofferenza dell’altro, se si patisce con l’altro. La Cavani sostiene che è nell’azione, nel fare, l’unico modo con cui Antigone e Tiresia possono esprimere il loro pensiero, il loro sentire: l’Essere-con è prerogativa del “fare”. Per entrambi, infatti, l’azione e la parola sono un tutt’uno. L’atto è già verbo. Entrambi sono a tutti gli effetti i rappresentanti di una umanità allo stesso tempo nuova ed arcaica, per cui il pensiero si genera nel momento del fare; dimensione che diventa la misura dell’uomo. La scelta è il momento embrionale dell’azione: Antigone si trova sempre nella condizione di scegliere: prima nel dare sepoltura al proprio fratello e poi nel continuare con i corpi degli altri eversivi. È nelle scelte che precedono l’azione che ogni individuo si costruisce, che diviene se stesso. Come ricorda Kierkegaard «ogni comportamento dell’uomo è frutto di una scelta, che lo sappia o no. L’uomo è quell’ente che, per il fatto di esistere, si trova sempre nella necessità di scegliere. Ne consegue che all’esistenza appartiene costitutivamente una dimensione etica.»Ogni singola scelta che Antigone affronta è un atto che determina la sua persona. L’Essere si costruisce e diviene nel momento in cui si ritrova a dover affrontare una scelta. L’Essere si fa nel momento del fare, nell’azione.

I cannibali - 1969 - foto di Antonio Casolini

Lo sguardo sui cannibali, uno sguardo empio
«Tu ci vedi ma pur vedendoci non vedi in che abisso sei caduto»
Tiresia

Lo Stato, lasciando i corpi senza vita dei ribelli lungo le strade, vuole provocare una visione insostenibile, di modo che tutti i cittadini si vogliano arrendere e rendere volontariamente ciechi, così da ottenere ubbidienza e timore. La relazione tra la visione ed il potere che la gestisce è fondamentalmente una questione etico-politica. Lasciare i morti nelle strade come monito è un atto programmatico di educazione coatta, che attraverso lo sguardo vuole indurre paura e indifferenza, finalizzate alla dissuasione di insurrezioni. È un sistema che fonda il suo potere su un’educazione paternalista, quasi terroristica. Attraverso il terrore e l’orrore della visione, infatti, lo Stato induce alla riverenza e alla genuflessione. Il desiderio di potere voyeuristico, insito nel corpo autoritario della società, è un aspetto su cui la Cavani ha voluto dedicare ampio spazio. Tiresia, catturato non dalla polizia bensì dalla TV di Stato – «perché in situazioni come questa la competizione tra le forze del potere diventa particolarmente importante», dice il presentatore – viene espo-sto come fenomeno aberrante di un mondo alieno. Antigone, torturata e ridotta in fin di vita, sarà l’oggetto dei desideri deviati dei politici di Stato. Sono tutti atteggiamenti che comportano una spettacolarizzazione della sofferenza. Ma la scena finale dell’esecuzione meglio racchiude, sia per contenuto sia per modalità di rappresentazione, il con-cetto di desiderio voyeuristico deviato. Come nell’Ottocento le impiccagioni attiravano una folta schiera di spettatori, allo stesso modo la fucilazione dei due “eversivi” viene seguita da un numeroso e variegato pubblico. Uno spettacolo popolare da anfiteatro romano, che accomuna il terrore ed il piacere nei confronti delle atrocità e della morte. Benjamin affermava che l’autodistruzione dell’umanità, ormai estranea a se stessa, sarebbe stata uno spettacolo di cui godere. «La sua autoestraneazione ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine».
La folla accorsa si stringe in cerchio per “cannibalizzare” l’evento della fucilazione, mentre dalle finestre del palazzo del governo, una schiera di dirigenti politici, sadici detentori del potere, si alternano alla finestra, contendendosi il binocolo, mezzo, o medium, con cui godere dello “spettacolo”. La Cavani in questa scena, che ritornerà nel finale di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini, esprime la sua forte critica nei confronti delle istituzioni, mostrando la simbiosi tra potere politico e sadismo voyeuristico. Il non celato piacere perverso, provato dai dirigenti politici, converge in uno “sguar-do empio”, emblema dell’aberrazione morale e della patologia del potere politico. Una metafora che induce a pensare a quanto il ruolo di Spectator sia connesso a quello del carnefice, se separato dall’“oggetto” della visione.
Questa dissociazione tra vedente e oggetto visto, tra Spectator e Spectrum, è una delle caratteristiche fondamentali del panopticon di Bertham, a cui Foucault dedica ampio spazio nel suo Sorvegliare e punire. Per Foucault il panopticon è «una macchina per dissociare la coppia vedere-essere visti: nell’anello periferico si è totalmente visti, senza mai vedere; nella torre centrale, si vede tutto, senza mai essere visti». Approfondendo la sua analisi Foucault arriva a teorizzare il passaggio dalle società disciplinari, che organizzano e «disciplinano» minuziosamente gli spazi ed i tempi attraverso l’internamento, (la cui forma d’eccellenza è la reclusione carceraria), alle società del controllo, in cui, come nel panopticon di Bertham, non è più necessario l’internamento e l’organiz-zazione strutturale, ma grazie ad un uso capillare del controllo visivo, che è modulare e si può adattare ad ogni spazio-tempo, si garantisce una sorveglianza perpetua, e quindi più efficace. «La nostra società non è quella dello spettacolo, ma della sorveglianza; sotto la superficie delle immagini, si investono i corpi in profondità; dietro la grande astrazione dello scambio, si persegue l’addestramento minuzioso e concreto delle forze utili; i circuiti della comunicazione sono i supporti di un cumulo e di una centralizzazione del potere; la bella totalità dell’individuo non è amputata, repressa, alterata dal nostro ordine sociale, ma l’individuo vi è accuratamente fabbricato, secondo tutta una tattica di forze e di corpi. Noi siamo assai meno greci di quanto non crediamo. Noi non siamo né sulle gradinate né sulla scena, ma in una macchina panoptica, investiti dai suoi effetti di potere che noi stessi ritrasmettiamo perché ne siamo un ingranaggio. [...] [Il panopticon è un] dispositivo importante, perché automatizza e deindividualizza il potere. Poco importa, di conseguenza, chi esercita il potere. [...] Così come è indifferente il motivo che lo muove: la curiosità di un indiscreto, la malizia di un bambino, l’appetito di sapere di un filosofo che vuole percorrere questo museo della natura umana, o la cattiveria di coloro che provano piacere a spiare e punire». La società immaginata dalla Cavani ne I cannibali si pone a metà strada tra una società disciplinare ed una del controllo. Persistono strutture di internamento, valide per i soggetti che sono completamente “assoggettati” al potere; la famiglia in casa, i militari in caserma, i devoti in chiesa, i matti e i diversi in istituti di igiene mentale. Nello stesso tempo la Cavani immagina un controllo pervasivo e perpetuo amministrato non tanto dalle diverse strutture ma soprattutto dai singoli cittadini stessi. La facoltà di essere visibile, che la società sfrutta, permette di controllare comportamenti, gesti ed attitudini individuali. È l’affermazione della “società dello spettacolo e della sorveglianza”. Tutti i cittadini sono coinvolti nel sorvegliare i corpi degli eversivi, e spiandosi l’un l’altro sono parte attiva della macchina di controllo. Chiunque è un ingranaggio del dispositivo di controllo del potere. Per cui lo sguardo partecipante di Antigone e di Tiresia si pone come un atto etico di resistenza ed acquista per questo un valore politico. È sull’orizzonte del vedere che si svolge la battaglia tra potere ed eversione, tra propaganda e resistenza. Il cinema ha insita questa duplice caratteristica: può essere sia strumento di assoggettamento e di propaganda sia elemento di rivendicazione e di emancipazione rivoluzionaria, come sottolineava Benjamin. Ed il cinema della Cavani si pone dalla parte dell’emancipazione delle coscienze e dello sguardo, attraverso un uso politico pedagogico ed etico.

I cannibali: un rituale per esorcizzare

«Ho sentito degli spari la mattina all’alba: era ancora tutto buio, in paese. Poi, non appena possibile, sono uscita fuori a vedere. Mi sono messa a correre dietro alle contadine che arrivavano a gruppi in bicicletta. Sono arrivata nella piazza del paese. C’erano sedici partigiani per terra, insanguinati. E i repubblichini intorno, a far la guardia, con i fucili spianati. Le donne, mogli, madri, figlie, piangevano, urlavano, volevano i loro morti, li volevano carezzare, ricomporre, seppellire. I repubblichini non gliel’hanno permesso per le dodici ore in cui avevano deciso che quei sedici cadaveri dovevano restar lì a far da monito e minaccia a chi veniva a guardare […]. E i grandi non si sono accorti di me, non hanno potuto impedirmi di guardare, di imprimermi nella memoria quei morti, quel sangue, quei fucili, quelle urla disperate.»
Il terribile “spettacolo”, a cui la Cavani assistette da bambina, ha, volontariamente o no, influenzato la scelta di rappresentare il mito di Antigone. La visione dei morti lascia-ti senza sepoltura nelle strade, la fucilazione finale e quella iniziale sembrano ricollegarsi direttamente a quella esecuzione di partigiani a Carpi. È come se si instaurasse una ripetizione lungo tutto il film del fatto accaduto. In diversi frammenti “riecheggia” quella terribile visione che cattura e “pietrifica”, che rende immobili ed incapaci di qualsiasi reazione. La ripetizione di quegli sguardi pietrificati tende ad assumere i connotati del cerimoniale, del rito. Forse I cannibali è servito involontariamente alla regista di Carpi per liberarsi di quelle immagini che la ossessionavano, mettendo in atto un rituale per liberare, per allontanare, per esorcizzare il passato. Deleuze affermava che per non ripetere non si deve solo ricordare il passato, ma lo si deve mettere in scena, lo si deve recitare e ripetere fino all’«agnizione» aristotelica. «Freud mostrava sin dall’inizio che, per cessare di ripetere, non bastava ricordare astrattamente (senza elementi affettivi), [...] ma bisognava andare a cercare il ricordo là dove era, installarsi di colpo nel passato onde operare la congiunzione viva tra il sapere e la resistenza, la rappresentazione e il blocco. [...] L’operazione, ben altrimenti teatrale e drammatica attraverso cui si guarisce e anche non si guarisce, porta un nome, quello di transfert.» La ripetizione secondo Deleuze può renderci “malati” ma può anche guarirci. Bisogna ripetere il passato per esorcizzarlo: per liberarsi delle immagini impresse nella memoria serve mettere in scena il passato. Si attua una sorta di “Cura Ludovico”, in cui la vista pietrificante di morti abbandonati senza sepoltura ripetuta viene altresì scongiurata, esorcizzata. L’approccio de I cannibali sembra avvalorarsi dei connotati della cineterapia; oltre ai tratti poetici, pedagogici ed etico-politici il film si inoltra in una prospettiva medica terapeutica.

«And if I go insane, will you still let me join in with the game?»
Roger Waters, If...

Il cinema della Cavani si caratterizza, anche nelle pellicole più “sobrie”, per un gran-de potenziale allucinatorio e visionario. I cannibali è pieno di scene che si abbandonano alla rêverie, alla fantasticheria e all’immaginazione ad “occhi spalancati chiusi”. Un film che sfiora il surreale, che rientra di sicuro nella dimensione onirica. Tiso ha coniato la felice definizione di «film di fiction su una ipotesi che è accidentalmente politica e essenzialmente mitica». Le ipotesi sognate ad occhi aperti sono di una poeticità pacata e sobria ma anche di una forza quasi magica. La scena finale, in cui i ragazzi dell’istituto di igiene mentale iniziano a seppellire i morti secondo l’esempio di Antigone, racchiude tutto il potenziale onirico, che, benché non decreti un happy end lascia “immaginare” un’eventuale premessa sottesa ad una realizzazione non reale. È appunto un’ipotesi. Lontano dall’essere un mero mezzo di evasione, il cinema, con il suo potere di immaginazione e di fantasticheria, può rappresentare un propulsore di idee nuove, ancora da venire, ancora da verificare. È il mito del cinematografo che «crea comportamenti grazie ai quali la coscienza si libera come forza attiva, contrapponendosi alla semplice ricettività».

Il corpo, gli spazi, le maschere, il gioco
«Il mio volto è una grande fonte di meraviglia anche per me»
Mick Travis, If...

Nel mito di Antigone il corpo rappresenta sia il motore narrativo della vicenda sia l’elemento attorno al quale ruota tutta la contesa tra spazio privato e spazio pubblico, tra leggi dello Stato e legge morale; è lo scenario sul quale si gioca la battaglia di riven-dicazioni tra singolo e società. Il corpo, da sempre controllato e plasmato dalle istituzioni secondo un determinato sistema, diviene nella cultura degli anni Sessanta l’orizzonte di scoperta, di affermazione e di rivendicazione dell’individuo. «Dal XVIII secolo agli inizi del XX, si è creduto che l’investimento del corpo da parte del potere dovesse essere pesante, massiccio, costante, meticoloso. Di qui i formidabili regimi disciplinari che si trovano nelle scuole, negli ospedali, nelle caserme, nelle fabbriche, nelle città, negli edifici, nelle famiglie... e poi, a partire dagli anni ‘60 ci si è resi conto che questo potere tanto gravoso non era più così indispensabile come si credeva, che le società industriali potevano accontentarsi d’un potere sul corpo molto meno serrato. Si è allora scoperto che i controlli della sessualità potevano attenuarsi e prendere altre forme...». Con il venire meno di una repressione e di un assoggettamento pressante da parte del potere, il corpo diviene la dimensione da scoprire e su cui sperimentare. Il linguaggio dei gesti, che Antigone scopre, si fonda sulla corporalità, sulla fisicità e sulla materialità della “pelle”, aspetti di una umanità che sceglie di riacquisire i suoi tratti caratteristici, a volte pretesi fino all’estremo animalesco, come nel caso di Emone.
Il travestimento, con cui Tiresia ed Antigone giocano, assume un valore di riappro-priazione dell’individualità nascosta dietro imposizioni disciplinari di mascheramento. Nelle scene di inseguimento, i due fuggitivi, come dei serpenti che cambiano pelle di continuo, passeranno da una divisa all’altra, portando in rassegna tutte le uniformi-maschere che la società impone, fino a ritrovarsi completamente nudi, riappropriatisi del proprio corpo. I travestimenti che Tiresia ed Antigone sperimentano indicano, come in un gioco di ruoli, la pluralità e la reversibilità degli individui. Il travestimento e lo scambio delle “maschere” è uno dei modi per resistere alle società di controllo che pretendono di individuare le singolarità. Non si può essere individuati perché ci si rende molteplici. Come nella dottrina buddista, presente in Milarepa, ogni individuo può identificarsi con ogni cosa al mondo: l’uomo aperto sul mondo e attraverso i suoi pori accoglie e si lascia accogliere dagli altri. «Colui che non ha mai avuto l’idea di una possi-bile pluralità non ha nessuna coscienza della propria individualità. [...] Non esiste l’Uno, esiste solo il molteplice: Uno è frazione di Due, non ha natura di unità, ma di alterità. [...] L’apertura alla pluralità dell’individualità instaura un rapporto cosmico, quasi magico, antropo-cosmomorfico, che è alla base di qualsiasi mito». Come nel linguaggio le variazioni polisemiche determinano un senso che sfugge, la pluralità dell’individuo rende l’uomo in continua migrazione, sfuggente, chimerico, comunque e sempre ancora da venire. L’esistenza è puro divenire. Nel cinema della Cavani l’esistenza, sempre sfuggente, può essere esplorata attraverso il gioco, orizzonte possibilistico che permette l’interscambiabilità tra i soggetti nella danza della vita.